Manifesto

Società” e “territorio” sono due categorie apparentemente distinte, due parole semplici che indicano concetti differenti, ma che se accostate diventano una categoria culturale, un paradigma.

Non esiste infatti società senza un luogo che la radichi, e non esiste un territorio senza una società che lo permei, che lo trasformi, che lo custodisca. La sociologia, la filosofia politica, la storia delle comunità ce lo insegnano: dall’idea aristotelica dell’uomo politico, alla riflessioni moderne di Durkheim, Weber, Tönnies, le comunità umane sono sempre state intese in un intreccio tra relazioni e spazio, tra legami e memoria, tra identità e radicamento.

Il territorio non è mai solo geografia. È un prodotto culturale, è una stratificazione di lavoro e di storia, una sedimentazione di conflitti e di solidarietà.

Ogni città, ogni quartiere, ogni borgo custodisce in sé il segno delle generazioni che vi hanno abitato. E la società non è un’entità astratta: è la trama di relazioni, è l’affermazione di un’esperienza umana, di forme di convivenza, di associazioni che danno senso a quel territorio.

La tradizione bresciana è particolarmente ricca di esempi in questa direzione. L’associazionismo laico e religioso, le cooperative, il mutualismo, le esperienze civiche nate nel Novecento hanno rappresentato non soltanto strumenti di sopravvivenza in momenti difficili, ma anche laboratori di democrazia e di cittadinanza. È a questa genealogia che Società & Territorio si richiama: non per nostalgia, ma per consapevolezza che senza radici non vi è futuro.

Viviamo in un tempo in cui i processi globali sembrano correre più veloci della capacità di governarli. L’economia, nelle sue dimensioni planetarie, appare sovente indifferente ai destini locali, mentre le comunità rischiano di sentirsi fragili, marginalizzate. In questo contesto, tornano attuali le parole di Keynes: “Il governo dell’economia globale deve quindi tornare a coniugare tre elementi: l’efficienza economica, la giustizia sociale e la libertà individuale.”

Efficienza economica, giustizia sociale e libertà individuale non sono categorie separate, ma elementi di uno stesso equilibrio che, se spezzato, conduce a squilibri devastanti.
Senza giustizia, l’efficienza diventa disuguaglianza; senza libertà, la giustizia rischia di degenerare in imposizione; senza efficienza, libertà e giustizia restano promesse vuote.
Questi valori devono essere il cardine di una politica economica e sociale che ridisegni i diritti individuali e collettivi salvaguardando da un lato le scelte delle persone e dall’altro la necessità di eliminare le disparità create dallo sviluppo economico.
Il processo di crescita va infatti governato promuovendo un coordinamento delle politiche che agevoli la capacità redistributiva, per contrastare efficacemente le disuguaglianze.
Questa visione non è una teoria economica astratta, ma un principio di convivenza civile.
Perché la società e il territorio possano restare vivi, occorre che le persone sentano di appartenere a una comunità in cui il merito non si trasforma in privilegio, e in cui il progresso non diventi esclusione.

Non basta però l’equilibrio dei sistemi economici: serve una educazione capillare e una cultura che sostenga anche i legami sociali.

Maria Montessori, educatrice e pensatrice di rara profondità, ci ricorda che oggi molti parlano di pace, ma in pochi educano veramente alla pace. Finché l’educazione resta ancorata alla competizione, questa si trasforma inevitabilmente in conflitto. La pace nasce invece dall’educazione alla cooperazione, al dono, alla solidarietà reciproca.
Il rischio, oggi come in passato, è di cadere nel gioco sottile del potere, che consiste nel convincere i più deboli che la causa delle loro difficoltà risieda in chi sta peggio di loro. Questo meccanismo, definito come “il capolavoro delle classi dominanti” divide i fragili tra loro e li distoglie dall’analisi delle vere responsabilità. Per questo occorre coltivare una coscienza critica che impedisca “le guerre tra i poveri” quando invece, spesso la radice dei problemi si colloca in alto.

Hannah Arendt, con la sua forza di pensiero, ci insegna che “un individuo isolato può forse costruirsi una carriera, ma non soddisfare il bisogno di vivere un’esistenza umana piena. È soltanto dentro un popolo, cioè dentro una comunità, che l’uomo vive davvero come uomo tra gli uomini, senza consumarsi per mancanza di energie.”
Questa affermazione non è nostalgia comunitaria: è la presa d’atto che la libertà individuale ha bisogno di legami sociali, e che i diritti diventano reali solo se sono condivisi.

In questa prospettiva, un antico proverbio africano offre una sintesi molto efficace: se vuoi correre veloce vai da solo, se vuoi andare lontano corri insieme.
La velocità è del singolo, la durata dell’esperienza è della comunità.
È il principio che regge la civiltà: ciò che resiste al tempo non è mai opera di un individuo solo, ma di una collettività che condivide un orizzonte.

Eppure, la collettività non basta se non trova voce. Martin Luther King ci ricorda come non è la cattiveria dei malvagi a far paura, ma l’ignavia degli onesti e che la nostra vita comincia ad insterilirsi quando restiamo muti di fronte alle cose che contano. La cittadinanza, dunque, è anche parola: parola pubblica, parola che denuncia, parola che costruisce.

Ecco allora il senso di Società & Territorio: non un’associazione come tante, ma un laboratorio di pensiero e di azione, un presidio culturale che unisce la riflessione su processi globali alla cura concreta dei problemi locali. Un luogo dove l’idea di economia incontri quella della giustizia e dove l’educazione sia fondata sulla solidarietà e non sulla competizione, dove l’individuo si riconosce nella comunità, nella quale la voce si sostituisce al silenzio.

Non è un programma politico, non è un manifesto chiuso: È un cammino culturale che nasce dalla convinzione che soltanto ricostruendo i legami tra società e territorio potremo affrontare le sfide del nostro tempo senza rinunciare alla dignità e alla speranza.